POMERIGGIO AL CUBA CAFE’ – Una storia pulp tra Brendola e L’Havana.

Quel bar di provincia, precisamente a Brendola, poco prima del Basso Vicentino, era silenzioso e puzzava di sudore. L’impressione che dava al viaggiatore solitario che capitava dentro per ristorarsi era quella di un quadro di infimo ordine, dai pastelli spenti, abbandonato in qualche soffitta da un pittore fallito morto suicida, in maniera molto violenta, giusto per lasciare un senso di colpa che nessuno avrebbe mai raccolto. I clienti erano dei morti viventi, zombie cirrotici pieni di frustrazioni cronicizzate e assorbite dal gonfiore della pancia. Si impregnavano di vino, Campari, Campari con il prosecco e prosecco da quattro soldi. Mangiavano bocconcini di pesce in barile, viscere di maiale o sfilacci di musso. La barista aveva un culo e delle tette enormi. Era divorata dagli sguardi vogliosi dei clienti e non le dispiaceva. Riusciva a nascondere bene l’imminente decadenza fisica. Era a un passo dell’inizio della fine per una donna, ma solo a un passo. Lei ne era consapevole e la sua psiche ne risentiva, al di là delle stronzate che potevano dire riviste tipo Donna Moderna per cercare di accomodare la situazione. Aveva passato i quaranta e molti anni li aveva sprecati in quel bar di periferia. Per questo era andata a Cuba lo scorso inverno, doveva cambiar aria per un po’, per non impazzire, per dimostrare a sé stessa che aveva ancora energia. Aveva litigato con suo marito ed era partita, da sola. Tre mesi ai Caraibi, una storia indimenticabile con un giovane cubano e poi di nuovo a casa. Adesso era li, dentro al bar, con le sue tette alte, grosse e sode, il suo culo perfetto e la sua aria da bambolona. Sapeva di sudore, di cucina e di sesso.
Aveva portato un tocco di novità da Cuba, arredando il bar con colori tipici dell’isola e mettendo insistentemente musica cubana. Suo marito aveva accettato il cambiamento, suo malgrado, arrivando persino a tollerare un enorme murales all’esterno del bar, un dipinto che raffigurava una DeSoto rossa fiammante stagliata sotto l’altissimo cielo azzurro dei Caraibi. 

Ai clienti non gliene fregava proprio niente di quella cosmogonia latina, la loro sensibilità era una semplice evaporazione dell’alcool all’interno dei corpi, la loro capacità di cogliere ed esprimere le sfumature di un’esistenza drammatica si limitava alla flatulenza periodica che faceva vibrare il loro buco del culo, dando sollievo alle emorroidi strozzate e alle ragadi curabili solo con un difficile intervento di chirurgia plastica. Il loro scopo era bere per lavare via una giornata da rotellina umana dentro un anonimo capannone industriale della perduta provincia vicentina, che la crisi economica della regione aveva trasformato in un simbolo patacca di una collettività ormai scialba e depressa. L’idea di socializzazione era il grugnito, l’alcool e l’inutile istinto scopereccio verso la barista.
La mia missione era invece quella di arrivare a sera completamente ubriaco. Il bar mi andava bene perché era popolato da gente che non ti faceva mai i conti in tasca. Io e il mio amico Elio, oscillavamo tra il mistico e lo schizoide e chiamavamo il bar “Cuba Cafè”, anche se il suo vero nome era “Osteria Centrale”, nonostante si trovasse sulla provinciale che dal casello di Montecchio Maggiore porta a Lonigo. Guardate su Wikipedia: sono tutti nomi che esistono. Eravamo aggrappati ad alienazioni improbabili e sicuri che non ci sarebbe successo niente di eccezionale quel pomeriggio, convinti che qualche forza oscura controllasse le nostre esistenze e rubasse i nostri pensieri. Ci sentivamo cronisti disoccupati dell’assurdo in un mondo che non eravamo sicuri aver digerito e davamo tempo al tempo. Elio di solito leggeva freneticamente il Giornale di Vicenza dalla prima all’ultima riga e a volte mi recitava con enfasi interi articoli ad alta voce. Io lo ascoltavo, disinteressato, con il bicchiere in mano e lo sguardo appiccicato – come tutti – al culo della barista per onorare la causa della coscienza universale. Era questo che stavamo facendo quel pomeriggio, pensando che non sarebbe successo niente, quando, improvvisamente un rumore violentissimo fuori del bar, seguito da un urlo che sembrava quasi sintetico, risvegliò gli avventori dal torpore alcolico in cui erano immersi.
Uscimmo tutti in strada. Un furgone bianco, con una scritta verde che recitava “Veneta Service”, aveva centrato in pieno un cavallo marrone, sbucato sulla strada statale 500 da chissà dove. L’animale, con un balzo di una decina di metri, a sua volta aveva beccato una Vespa Piaggio, modello anni 70, cilindrata 50 cavalli fiscali, facendo atterrare il conducente di faccia sugli scalini del bar. Il cavallo agonizzava ed emetteva uno stridulo e angosciante pianto di morte e di dolore. Dalla bocca gli usciva una schiuma biancastra e uno squarcio nel ventre mostrava la carne viva. Il sangue doveva ancora uscire.
Un fermo immagine.
Assorbimmo tutta la scena, restando a bocca aperta sugli scalini del bar, tutti con il proprio bicchiere in mano, a parte la barista che aveva il vassoio vuoto. Poi, improvvisamente, tutto si mosse velocemente. Il sangue cominciò a sgorgare dal ventre del cavallo e il suo grido si fece più acuto. Ci accorgemmo che aveva il manubrio della Vespa infilato nella pancia. Una donna con la divisa dello stesso colore e con la stessa scritta del furgone scese dall’abitacolo gridando frasi sconnesse relative a qualche polizza assicurativa. Era in evidente stato di shock e si aggirava confusa avanti e indietro per la strada. Il tipo della Vespa nel frattempo si era alzato, lasciando metà faccia sugli scalini. Per terra si potevano vedere frammenti di denti e di cuoio capelluto impiastricciati con grumi di sangue. Scostando la gente con indifferenza era entrato nel bar chiedendo alla barista qualcosa di incomprensibile. Riuscii ad afferrare le parole che uscivano da quella bocca gonfia e tumefatta. Era una cosa tipo “dmmi nnn …osso”. Stava chiedendo da bere: vino rosso. La barista mosse le sue tette e il suo culo e glielo diede, disgustata. Il tipo aveva lasciato tracce di sangue dappertutto. Trangugiò il bicchiere, versandosi addosso metà contenuto e fissando la barista con l’unico occhio rimasto. Vidi una smorfia di desiderio in quel poco che restava della sua faccia, mentre la sua mano avanzava verso il seno prosperoso. Fu in quel momento che il mio sguardo incrociò quello della barista.
Un altro fermo immagine.
Lei mi guardava implorando aiuto, con gli occhi in lacrime. Quegli occhi in lacrime cercavano disperatamente qualcuno che la portasse lontano da tutto. Lontano, magari a Cuba. Io le sorrisi, semplicemente, immaginandomi un rapporto carnale con lei, in camera, madidi di sudore. Una scopata selvaggia sul suo letto, con le finestre chiuse e il ventilatore acceso sopra di noi. Nel bar, attorno a me, nessuno parlava, nessuno si muoveva. Lo strazio del cavallo e le grida deliranti della tipa del furgone erano diventati rumori di sottofondo. Solo una cosa si sentiva forte e distinta, tanto da cancellare non solo quel suono di emergenza ma anche il ricordo del ritmo abituale di quel paesaggio, fatto dal rumore di bicchieri e di bestemmie e dall’eco del flusso incessante di macchine sulla statale. In quel momento era la rumba e la salsa che dominava quell’umido angolo di pianura veneta. Solo la voce di Celia Cruz avvolgeva l’atmosfera, con il suo carico di sensualità rassegnata. “Si quieres gozar, quieres bailar”, cantava Celia assieme alla barista che improvvidamente si mise a ballare, avvicinandosi a me sempre di più.
Buttai giù il mio Campari.

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