Il Jazz è contaminazione, è dialogo, confronto, anche scontro. Il jazz è sudore e sangue anche quando sei elegantissimo in completo e cravatta chinato sul sax. Il jazz è popolo, danza, qualcosa che non si spiega a parole ma che si vive e basta. Limitarlo ad un qualcosa che un tempo andava di moda ed ora è lingua morta significa non coglierne l’essenza. Un festival come quello di Vicenza ha il pregio di mostrare angoli e sfumature di jazz anche poco note o che non sono considerate come classiche. In quest’ottica il concerto di Avishai Cohen, di cui abbiamo parlato qui, rimane forse il momento più alto e importante di questa fortunatissima edizione appena conclusa. Un jazz quasi d’avanguardia, lontanissimo da quel post-bop che ha fatto credere per anni ai non addetti ai lavori che questa musica fosse solo: tema – assoli – ripresa tema. In realtà il jazz è libertà e, cosa non secondaria, non è solo made in usa. Ecco che la serata del 18 maggio è stata esemplare in quanto finestra aperta su altri mondi. Quando si parla di jazz scandinavo o di jazz “nordico” si parla di un’estetica, di una corrente dalle originali caratteristiche musicali, tendenzialmente lanciata verso la modernità, che intercetta un nuovo modo di “sentire” e di “esprimere” le tematiche, frutto sicuramente di un insieme di elementi: l’estetica free del musicista, gli umori tipici di quelle postazioni geografiche (le diversità ambientali di quelle zone, dove la temperatura e la luce del sole sono fattori fondamentali per le riflessioni degli uomini), le aperture fondamentali alla musica colta, il folk dei loro paesi e quelli di paesi lontani. Costruire una “nuova strada” per la musica contemporanea era uno degli scopi di Manfred Eicher, fondatore della casa discografica tedesca dell’Ecm records, che, agli inizi degli anni settanta, cominciò ad accogliere nelle sue fila musicisti con le caratteristiche appena elencate. I due nomi più noti sono molto probabilmente quelli di Jan Garbarek e di John Surman. È stato quest’ultimo ad offrire (in duo col pianista Vigleik Storaas) un concerto stupendo nello spazio del ridotto del Teatro Comunale. Linee melodiche cantabili, composizioni sognanti e di rara delicatezza, sostenute da un pianismo quasi classico con più di un riferimento alla scuola minimalista.
Serata poi completata da una delle più belle sorprese dell’intera edizione 2022: l’Earth Trio di Paolo Damiani (contrabbasso), Rosario Giuliani (sax alto e soprano) e Zeno De Rossi (batteria). Un combo che nasce proprio per Vicenza e che per un’ora ha offerto sperimentazioni e improvvisazioni di matrice puramente “europea”. I loop e gli effetti usati da Damiani, il drumming innovativo di De Rossi e i temi cristallini e blues di Giuliani hanno dato vita ad un vero e proprio viaggio nelle possibilità del jazz moderno. L’idea di mettere in cartellone questi due acts nella stessa sera è stata senza dubbio molto intelligente e mossa da uno spirito divulgativo che va applaudito.
La sera prima era invece andata in scena l’altra faccia della medaglia. Ovvero la tradizione. David Murray è, come giustamente ha detto Riccardo Brazzale presentandolo, un pezzo di storia del jazz. Ha suonato con leggende come Anthony Braxton, Don Cherry e Lester Bowie ed è stato molto influenzato da quel genio assoluto che risponde al nome di Albert Ayler. A Vicenza ha portato una produzione originale con Shabaka Hutchings (sax tenore, clarinetti), Aruan Ortiz (pianoforte), Brad Jones (contrabbasso) e il grande Hamid Drake (batteria). Un set composto anche da un paio di omaggi a Mingus, protagonista del festival. Murray ha deciso di prendere uno dei primi brani del Mingus maturo e uno degli ultimi. Si tratta di due capolavori assoluti: Pithecanthropus erectus e Sue’s Changes. Due esempi sublimi di quel third stream di cui Mingus fu assoluto padrone. In Sue’s Changes soprattutto (dall’album Changes Mingus) pare scorrere tutta la storia del jazz, con momenti free, frasi orchestrali, temi lirici e cambi di tempo e ritmo funambolici. Un tour de force che il quintetto di Murray ha un po’ edulcorato privilegiando i solismi.
Due serate, due concerti, la stessa musica. Ma tutto completamente diverso. La bellezza del jazz è questa. E ora aspettiamo l’appendice di luglio che sarà di valore assoluto.