I nuovi centri culturali. L’incontro a Porto Burci con Bertram Niessen.

Si è tenuto ieri, giovedì 19 maggio, a Porto Burci, l’incontro con il direttore scientifico di “Che fare” Bertram Niessen, per cercare di capire cosa si nasconda sotto la categoria ombrello di “nuovi centri culturali”. “Che fare” è un’associazione che nasce da altre esperienze di sperimentazione nei linguaggi tra musicisti, architetti, designer attraverso l’uso di nuove tecnologie. Esperienze poi portate in tutta Europa. Proprio il confronto con altre realtà simili ha fatto comprendere la differenza tra noi ed il resto del continente. All’estero questi progetti sono finanziati da enti pubblici perché ritenuti di alto valore sociale. Ed è quello che poi è accaduto anche a “Che Fare”, che ha trovato un finanziatore privato che l’ha sostenuta per promuovere progettualità culturali dal basso. È nato così nel 2012 questo promotore culturale italiano, attivando nuovi centri bottom up che hanno la caratteristica di essere riconoscibili per delle caratteristiche comuni. Sono luoghi diversi tra loro, alcuni istituzionalizzati, con grandi strutture, altri più underground. Altri ancora di servizio o politicizzati ma con un alto tasso di informalità e portatori di valore grazie ad una dimensione esperienziale. In questi centri alberga un sentire comune condiviso che spinge a costruire nuove forme d’interazione tra le persone. Sono forme di cultura collaborativa, progettazioni di forme culturali che nascono dalla concertazione e articolazione del prodotto finale a partire dall’unione di tante tensioni che stanno sul territorio (inteso sia come materiale che come immateriale). La collaborazione non è del tipo “siamo tutti amici” ma è più “abbiamo voglia/necessità/vantaggio nello stare assieme”. La forma prevalente del racconto della filiera culturale è ‘produttiva’, nella logica collaborativa invece i progetti vengono resi complementari o stravolti da altri capitali che entrano in gioco: ad esempio il capitale di relazione o il capitale di collaborazione.

Bertram Niessen

Il libro di Bertram Niessen si chiama “Bagliore, nuovi centri culturali”, e pone, tra le altre, una domanda ben precisa: quanto le relazioni diventano autoreferenziali e quanto invece possono dare dei frutti? Dopo la pandemia abbiamo notato che si sta costruendo un capitale sociale gating e non bridging con logiche non più pubbliche ma private. Per evitare questo la strategia è “uscire all’arrembaggio”, aprirsi e contaminarsi. Il nuovo centro culturale però deve avere le porte aperte oppure essere settoriale? Lavorare per progetti è il modo di lavorare primario del terzo settore e spesso non copre i salari dei dipendenti causando una sorta di sfruttamento. A questo si aggiunge la complessità di ricostruire sempre il gruppo partendo da zero. Inoltre, il meccanismo dei bandi sembra produrre una precarizzazione dei progetti. Come si esce da questo loop? Quali sono le buone pratiche per invertire questa tendenza? Innanzitutto servono soldi pubblici per sostenere questi nuovi centri. In alcuni territori si stanno realizzando delle progettualità con collaborazione pubblico/privato o dove più soggetti si coordinano e sostengono specifiche iniziative. In Piemonte o in Emilia Romagna le iniziative culturali vengono normalmente sostenute a meno che non siano troppo “spinte”. Servono competenze anche molto elevate, che vanno fatte crescere e circuitare. C’è un tema di pressione politica, sociale, culturale per cui si cerca di dare ossigeno economico in modo che queste iniziative non muoiano a termine del progetto per dover ripartire da capo ogni volta. La pandemia poi ha certamente inciso. C’è stata una rinascita di strumenti di contatto di altri tempi: telefonata, volantinaggi, megafono… Il lockdown ha creato una trasformazione nei linguaggi. C’è stato un remix di istanze sociali e riorganizzazioni di piccole realtà. Il futuro è qui. E parte o ri-parte dal basso. La cultura salva la vita e le economie. E dà senso ad una comunità. Troppe poche le volte in cui ce lo ricordiamo, anzi, abbiamo pure creduto che con la cultura non si mangiasse…

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