Dici Richard Goode e subito stai parlando di emozioni. La capacità di trasmettere l’intensità delle partiture interpretate è la caratteristica principe di questo grandissimo pianista americano. Allievo di Bernstein, uomo dal carattere introverso e restio alle luci della ribalta. Esordì a 47 anni alla Carnegie Hall e da allora è considerato unanimemente uno dei più importanti, appassionanti e toccanti musicisti contemporanei. Il suo non è un sentimentalismo sdrucciolo e tantomeno un lavoro di enfasi vuota e retorica. La cifra di Goode sta nella naturalezza, nell’evitare esibizionismi o virtuosismi elaborati.
C’era molta attesa per il suo concerto al Teatro Comunale. Attesa ripagata da una serata splendida e coinvolgente. Per la sua prima volta nel capoluogo berico, Goode ha scelto un programma tipico classico/romantico a cui però ha aggiunto un’escursione nel novecento e nel pianismo percussivo e originale di Béla Bartók. Con i suoi “15 canti contadini ungheresi” è infatti iniziata la seconda parte della serata. Lo studio del canto popolare ha interessato Bartók durante tutta la sua vita quasi altrettanto quanto la composizione. Un’attenzione rivolta anzitutto alla cultura del suo popolo. Ma oltre che del patrimonio etnico ungherese, Bartók si occupò ripetutamente di quelli di altri popoli limitrofi, dai romeni agli slovacchi. Ed è con il pensiero ed il cuore a Kiev che abbiamo ascoltato queste splendide note che rimandano ad un vero e proprio canto popolare della mitteleuropa.
Il concerto era iniziato con l’accoppiata Schumann-Schubert, autori molti cari al maestro americano. Del primo ha proposto i “Papillons”. Dodici brevissimi haiku sonori, che sposano un romanticismo galante. Un cavalleresco invito alle danze. L’invenzione musicale è quanto mai varia e incessante nella sua caratterizzazione armonica; la frase melodica (stupenda quella iniziale che ritorna anche alla fine) coglie con estrema semplicità e naturalezza i vari momenti di questa trasfigurazione romantica in un quadro di rapide e incisive pennellate.
Di Franz Schubert è stata invece proposta la “Sonata in La minore Op.42”, che Goode incise per la Nonesuch nel 1993. Siamo al cospetto di una classica sonata dell’età romantica, anche se il secondo movimento rappresenta un caso quasi unico nelle sonate per piano di Schubert, essendo pieno di continue variazioni che ti fanno scordare il tema iniziale in un susseguirsi quasi impressionista di cambi ti sonorità e anche di tonalità.
Ma il meglio della serata è stato l’ultimo atto. La meravigliosa sonata 28 di Beethoven. Venti minuti di magia dentro al Beethoven del 1816 che iniziava in quel tempo la sua ultima incredibile fase creativa. Quella per cui rimarrà per sempre contemporaneo. Richar Wagner parlò di “melodia infinita” descrivendo il primo movimento. Il genio di Bonn scrisse una nota sullo spartito che recitava: “mit der innigsten Empfindung” (“con il più profondo sentimento”)
Nulla di più perfetto per chiudere una serata perfetta.