La cultura della bomba. Il virus Manoxe e la variante Gomplot. Perché c’è una Vicenza che sta con Putin.

Beh, ti credo che molti negazionisti vicentini, pardon…gente affetta dal virus ”ma-no-xe-colpa-solo-sua” (in medicina “Manoxe”) si cagano addosso, anche se non lo ammettono, appena sentono la parola “bomba”. Dalla stupidina ormai avanti con l’età, all’intellettuale spacotuto fino all’imprenditore senza bunker ma di grossa pasta, il pensiero che giustifica lo zar bombarolo che viene da Vicen(s)a si è diffuso come il coronavirus a marzo di due anni fa. È un virus comprensibile quello del giustificazionismo, come spiegheremo in questo articolo. Un virus che ha degli effetti collaterali abbastanza visibili, come ripetere allo specchio: “Da, ty prav tovarishch Putin” o “Da, ty prav camerata Putin” (camerata è troppo difficile da tradurre, anche con google).

Il Manoxe si diffonde più la guerra avanza e la sua variante colpisce anche insospettabili, quelli per i quali “Putin xe na facia de merda” ma cominciano a dubitare dei morti in Ucraina “parché no i se vede” e delle bombe “parché le foto xe sempre quele”. È  la variante complottista  del Manoxe, una variante il cui nome medico è “Gomplot”.

La proteina Spike che usano Manoxe e Gomplot per attaccarsi alle (poche) cellule cerebrali dell’infettato è la paura. La paura aleggia sotterranea nei cervellini di alcuni vicentini e dopo l’attacco del virus lo spirito ecumenico della solidarietà, per il quale il capoluogo berico un tempo era famoso, lascia sempre più il posto al Manoxe o alla sua variante Gomplot. Inutile cercare il perché in tante analisi socio-geo-politiche alla Facebook o durante i forum al Campanile o da Righetti organizzati dagli ultimi vininfluencer rimasti a Vicenza . Questo è un giornale serio e si parla di cultura. E i legami tra Russia e Vicenza spiegano l’origine del virus. E sono legami culturali, legati tra loro da un filo russo: la bomba.

TONY TEGA E PLUTO

Il primo legame culturale tra Vicenza e la Russia di cui voglio parlarvi riguarda Antonio Caberneto, detto “Tony Cabernet” o “Tony Tega”. Si racconta che sulle colline di Longare, in un giorno del secolo scorso, Tony Tega uscì a fare una passeggiata – scalzo come gli hobbit – con il suo cane Pluto e uno zainetto con dentro una bottiglia di due litri di graspa Miruvor, prodotta nella terra di mezzo tra Povolaro e Bassano, e do grammi di erba-pipa proveniente dal Mordorocco. Dopo qualche chilometro Tony si stese su una radura in cui c’erano dei cerchi come quelli della pianura di Nazca che, visti dall’alto, riproducevano un pugno dal quale si ergeva il dito medio con sopra un berretto da cosacco con la stella a cinque punte. Tony Cabernet, ma a volte lo chiamavano anche “Cabby”, ovviamente non riusciva a vedere quel disegno, vedeva solo strisce, ma anche se l’avesse visto probabilmente non gliene sarebbe fregato un cazzo. Per lui, semplicemente, il terreno era morbido e solo per quello decise di stendersi e fare un meritato riposino. Un riposino che qualche maligno, all’osteria dalla Norma, anni dopo avrebbe chiamato “coma etilico”.

Tony si addormentò, per così dire, mentre Pluto guardava accovacciato il vuoto o la pianura veneta (che forse è uguale) con la lingua fuori, rompendosi gli apparati riproduttivi canini. E mentre stava guardando, gli si rizzarono le orecchie. Un rumore come di una sega circolare aveva destato la sua attenzione e, appena vide la terra sotto di lui tremare e aprirsi in due, divisa da una perfetta lunghissima linea retta, scappò a zampe levate, fregandosene altamente di Tony.

Tony Tega, invece, sprofondò in quello squarcio del terreno che guardava nell’abisso e cadde, ancora in coma, per diversi metri, cadde fino a sbattere la testa su qualcosa di metallico e appuntito. Ma Cabby aveva una testa dura e quel colpo non risultò per lui fatale. Precipitò ancora per diversi metri e si risvegliò nelle viscere della terra. “Che bota..” furono le prime parole che disse, accompagnate da una tipica frase idiomatica vicentina di invocazione al creatore e al suo cane Pluto. Attorno a lui, un bunker enorme e in fila degli enormi missili, circa 200 enormi missili. Tony non era un tipo che si spaventava facilmente ma in quel caso l’adrenalina lo invase e fu solo il potere della graspa Miruvor che gli permise di saltare come una lepre su uno dei missili e risalire in superficie prima che l’apertura si richiudesse. Una volta ritornato sulla radura se la diede a gambe levate, chiamando il suo cane Pluto. Ma Pluto se n’era già andato e non lo rivide mai più. Le leggende narrano che Pluto si sia trasferito in Sudamerica, arrivando fino a Chioggia a 4 zampe e da lì su una nave diretta al Pireo per poi salpare in direzione Buenos Aires. Le ultime notizie su di lui lo davano felicemente accoppiato con una femmina di Dogo argentino. La sua stirpe sembra stia bene.

Tornando a Tony Tega, il nostro corse giù per le colline di Longare in un  batter d’occhio, arrivò a Campedello. In testa aveva un bozzo enorme dovuto all’impatto con la punta del missile. Entrò all’osteria di Campedello rosso in faccia, ordinò mezzo litro di cabernet e raccontò tutta la storia agli avvinazzati presenti. Alla fine del racconto, nessuno gli credette e tutti si misero a ridere con le lacrime agli occhi. Da allora, per tutti, Tony Tega divenne “Tony Bomba” ed per quello che la parola “bomba” sta ancora oggi a indicare, a Vicenza, una grossa ubriacatura ai limiti del coma etilico. Ma il dubbio che Tony avesse visto davvero quei missili restò impresso agli avventori dell’osteria e quel dubbio, con gli anni, divenne paura. E la paura si propagò e crebbe tra tutti i Vicentini. D’altra parte, quella falce e martello stampata sulla fronte di Tony fece veramente tanta ma tanta impressione.

PICOLO MA CATIVO

Nel raccontarvi l’altra connessione Vicenza-Mosca, senza tirare fuori il gas naturale con il quale il cielo vicentino si riempie di tramonti bellissimi, premetto che non è intenzione di questo giornale fare del razzismo regionale o del body shaming. Ma i fatti sono fatti, non pimpinelle. E i fatti dicono che quello che i drogati dei Pitura Fresca chiamano in dialetto “Picinin” e i cagnogni dei veronesi “Buteo”, qui da noi si chiama “Putìn”. Lo traduco per i pochi italiani che seguono la rivista: Putìn significa “bambino piccolo”. Un tempo, prima di internet e della sindrome di Hikikomori, i bambini da queste parti si desfavano di pacche, si riempivano di cicatrici cadendo con le braghette curte da bici trasformate in moto da speedway e con le figurine attaccate ai raggi per simulare il motore e nelle fredde giornate invernali, riscaldati dal gas Eni, giocavano a fare la guerra con soldatini di plastica o di legno. Prima di Tony Bomba, sparavano con piccoli fucili di plastica, massacrando i pellerossa americani, poi, dopo Tony Bomba, lanciavano testate nucleari contro la Russia fino a che la mamma non li chiamava nervosa a mangiare la minestra coi fegatini o la bistecca dura con le odiate verdure. Bistecca che facevano a pezzi, pensando ai sovietici, prima di mangiarla.

Tra quei bambini ce n’era uno, da Costabissara, che rimase particolarmente impressionato dalla leggenda di Tony Tega, o Tony Bomba o Tony Cabernet che dir si voglia e, in particolare, rimase impressionato dai quei 200 missili sotto a Longare. Ma lui non parteggiava per gli yankees, perché uno yankee che aveva fatto con lui la scuola materna di Motta, essendo 10 centimetri più alto, gli rubò la bambina bionda di ci si era innamorato. Così prese armi (le sue bombe atomiche di plastica) e bagagli e se ne andò a piedi in Russia. Quando arrivò alla frontiera Ucraina e passò in Russia gli chiesero il nome. “So un putin”, disse il bambino, molto prima di Lillo. E i Russi non solo lo accolsero ma lo fecero prima spia, poi capo del loro servizio segreto e infine Zar. I suoi cugini, rimasti a Costabissara, parlarono di questa faccenda ai vicentini. E i vicentini, ancora oggi, temono che lo zar venuto da Vicen(sa) ritorni a cavallo di una bomba come nel suo film preferito: il dottor Stranamore. Per questo, i berici affetti dal Manoxe ora dicono. “Anche se el xe da de qua, mejo tratarlo ben, parché non se sa mai”.

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