Panem Nostrum. Cento anni di Luigi Meneghello. La nostra corrente sottopelle.

I cent’anni dalla nascita di Luigi Meneghello (nato a Malo il 16 febbraio del 1922) sono naturalmente l’occasione per la pubblicazione di studi e contributi da più parti. Tra quelli giunti finora nelle librerie, meritano di esserne segnalati un paio. In Spor. Raccontare lo sport, tra il limite e l’assoluto (Rizzoli) Francesca Caputo, docente alla Bicocca e curatrice dell’opera dello scrittore maladense, nonché presidente del comitato promotore per le celebrazioni del centenario, ha raccolto testi di Meneghello, alcuni dei quali inediti, che disegnano un ritratto originale dell’autore attraverso la sua passione per lo sport. Altro acuto lettore dell’opera di Meneghello è Luciano Zampese, docente di latino e greco a Thiene e di Linguistica italiana all’Università di Ginevra, che ha recentemente pubblicato per Carocci una “guida” a Libera nos a malo («S’incomincia con un temporale») ma del quale vogliamo ricordare anche un precedente e intenso studio, scritto con Ernestina Pellegrini, sulle figure femminili “nella ricca topografia della scrittura meneghelliana” (Meneghello: solo donne, Marsilio, 2016).

Come umile, e parzialissimo, contributo da parte nostra – semplici (e non meno appassionati) lettori – ci limitiamo ad identificare tre aspetti della figura umana ed intellettuale di Luigi Meneghello che crediamo significativi, sebbene apparentemente lontani dalle pagine più note dell’autore.

LA GIUSTA DISTANZA

Meneghello scrive Libera nos a malo a partire dal 1960, a trentotto anni. Era espatriato in Inghilterra a venticinque, nel 1947, dopo l’esperienza della «guerra civile». Come molti altri giovani che erano stati cresciuti ed educati dal fascismo («tante parole vuote sotto cui non c’era nulla di reale»), aveva dovuto affrontare durante la guerra «una crisi mentale e morale, più che politica, una svolta nell’educazione» ed aveva sentito il bisogno di «ritirarsi a studiare», forse per restituire un senso a quelle “parole vuote”. Nelle ultime pagine de I piccoli maestri, nei giorni della Liberazione, alla richiesta di scrivere il fondo del «primo giornale libero del Veneto», Meneghello risponde: «“Noi abbiamo bisogno di studiare, non di scrivere articoli […]. Gli articoli li abbiamo già scritti sui giornali fascisti”». Ne Il Dispatrio racconta come andarono le cose: «Un giorno mi dice mio fratello che aveva visto un bando di concorso del British Council, un anno in Inghilterra a studiare quello che vuoi! Pareva imprudente non fare la domanda…». Dovevano essere dieci mesi, ci rimase quasi cinquant’anni. La distaccata ironia del venticinquenne Luigi raccontato dall’ormai settantenne Meneghello (Il Dispatrio è del 1993) rivela, almeno secondo noi, quel che poi trasparirà con una certa frequenza nei suoi libri: un bisogno di prendere la giusta distanza dall’Italia, dall’educazione fascista («ho fatto studi assurdamente “brillanti” ma inutili e in parte nocivi»), da Malo (Libera nos a…), dalla lingua (dirà più volte di non aver mai avuto nostalgia del dialetto o del mondo passato), dalla politica (dalle «piccole ali del Partito d’Azione»), forse anche da se stesso (a partire dai Fiori italiani l’io narrante diventerà “S.”, in terza persona).

Ci sono voluti anni – e una nuova “educazione” linguistica – per apprendere quello sguardo “da fuori”, per trovare le parole, e per convincersi a darle alle stampe: l’anno dopo l’uscita di Libera nos a Malo, pubblicherà I piccoli maestri, ma Pomo pero e Fiori italiani giungeranno a distanza di un decennio e Bau-sète! ben dodici anni più tardi. È Meneghello stesso a dare una possibile spiegazione a questa dilatazione temporale e spaziale: «Ho continuato […] a studiare e scrivere, confondendo un po’ i due processi. […] Ho pubblicato dei libri nei quali, come in tutto ciò che studio e scrivo, cerco di giustificarmi la natura delle cose, se c’è.»È un lavoro che richiede tempo, e fatica, quello di prendere le distanze dal “sustrato naturale della mente”. Bisogna togliere dalla terra. E trapiantare altrove. «Sono fiori italiani che nel vaso dove stanno cominciano a morire. Devo trapiantarli.»

MENEGHELLO PROSSIMO NOSTRO

È forse questa distanza che ha permesso a Luigi Meneghello di mostrare poi la sua straordinaria capacità di raccontare “da dentro” il suo mondo di bambino (in Libera nos a malo), il forte legame con gli altri “piccoli maestri”, gli affetti familiari, gli amori, le amicizie, il rapporto con i suoi studenti dell’università di Reading. Ci sembra di vedere, insomma, già nei suoi primi libri, ma soprattutto nei volumi de “Le Carte”, un Meneghello che alterna la più nota immagine di intellettuale ironico e talora distaccato a fotogrammi di autentico coinvolgimento, di compassione, di prossimità. Un esempio tra i tanti che si possono ritrovare nei volumi de “Le Carte” – che secondo noi sono «una specie di grotta delle meraviglie», come la bottega di Mino, a Malo – è “Padri e figli”, un racconto di rara intensità datato aprile-maggio 1963 (poco dopo la morte di suo padre). Meneghello si ritrova tutore di un bambino di due anni, orfano di amici compaesani morti nel giro di pochi mesi l’uno dall’altra. “Padri e figli” è una storia di formazione, destinata peraltro a non ripetersi nella vita reale: «”Ho un figlio” pensavo, “anch’io ho un figlio, e non è neanche mio”». Le domande che ogni padre si pone sull’educazione da dare ai propri figli. Le esitazioni sul ruolo che gli era toccato assumere («Io non avrei voluto essere un padre, soltanto darmi un po’ da fare in veste di demiurgo…»). Il bambino, ormai cresciuto, che nell’ultima parte diventa voce narrante, quasi a chiarire come stavano davvero le cose («… il professore, l’inglese, che veniva a trovarci ogni tanto. Il professore aveva l’incarico di organizzarci la testa, a me soprattutto»). Un aspetto di Meneghello che in Libera nos si fa fatica a rintracciare, ma che c’era già, a tutti gli effetti. Ritorna a toccare le corde della vicinanza nel 1979, con una “cronaca” della malattia di Guido, un amico di Thiene («… aveva un foruncolo, lo ha sempre avuto, una specie di neo tra il torace e la pancia…»). Si tratta di un racconto di dieci pagine: con “Padri e figli”, che ne conta ben sedici, è davvero una rarità nell’opera dello scrittore vicentino. Un diario scrupoloso, in cui Meneghello annota, giorno dopo giorno, l’evoluzione del tumore di Guido («Riguardo con angoscia le pagine dell’agenda») e lascia trasparire un coinvolgimento sorprendente («Leggevo tutto quello che potevo sul melanoma, portavo via a Arthur i giornali specializzati…»). Fino alla fine: «Siamo andati a vederlo, nella stanzetta tutti erano andati via. Era coperto con un lenzuolo, ne ho sollevato un lembo e ho guardato la faccia immobile del mio amico».

L’ITALIANO NON-ITALIANO

I due Meneghello, quello che mette distanza e quello che la annulla, si ritrovano anche nelle pagine più politiche, dalle quali emerge un terzo aspetto che consideriamo importante. Dopo l’8 settembre Meneghello fece parte, con alcuni amici vicentini e sotto la guida di Antonio Giuriolo, di un reparto partigiano giellino. Il riferimento politico dei “piccoli maestri” era il Partito d’Azione, quello di Vittorio Foa, Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Altiero Spinelli, Emilio Lussu e di quell’Ettore Gallo a cui è intitolato l’ISTREVI, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Vicenza. Si trattava di un partito laico e progressista, liberale e socialista, alternativo sia a quello democristiano che a quello comunista, un «partito moderno, colto, spregiudicato a cui volevamo affidare il rinnovamento dell’Italia». Antifascismo, giustizia sociale, ma soprattutto federalismo: gli azionisti volevano un’Italia come federazione di regioni ed un’Europa come federazione di liberi Stati democratici. Sul federalismo, Meneghello ebbe modo di esprimersi chiaramente: «…si era dato un po’ troppo alla svelta per scontato che ci fosse […] davvero una nazione italiana, con tutti i suoi attributi. Se avessimo avuto più fortuna, o più testa, chissà se la Repubblica non sarebbe oggi quella associazione di stati regionali indipendenti a cui la nostra storia vera ci predisponeva…». Alle elezioni del 1946 il Partito d’Azione non superò l’1,5% («non votava nessuno per noi, neanche le nostre fidanzate», dice Meneghello a Marco Paolini in Ritratti). L’organizzazione si sciolse poco dopo, ma il suo pensiero fu fondamentale per la nascita dell’Europa unita (il Manifesto di Ventotene in primis). Se rileggiamo le pagine di Bau-sète!, però, ci sembra di comprendere che non fu certo la delusione per il tramonto del sogno azionista a spingere Meneghello a cercare futuro in un altro paese, quanto piuttosto un profondo e radicale bisogno di rinnovamento, di transizione verso qualcosa di ben diverso, che cozzava in modo irrisolvibile con la sensazione che l’Italia del secondo dopoguerra potesse diventare «qualsiasi cosa, anche un altro fascismo», che la Storia appartenesse «per sua natura a chi ha il dono dello spurio, e se ne nutre». «A Vicenza una delle prime cose a cui assistetti di persona fu il discorso ufficiale in piazza dei Signori. Lo faceva un personaggio illustre, emblema della Resistenza, e (mi aspettavo) della sua concretezza e sobrietà. La piazza era stracolma. Udii le prime parole: «Quando in cielo s’accende un palpito di stelle…». Mi venne la pelle d’oca, e andai via. Un palpito di stelle! Allora, mi dicevo, è stato tutto per niente… Ritiro tutto!» «… l’Italia è il paese dei reazionari, neri di sottana o di camicia: sono tristi fatti della natura. In questo momento i fascisti non si vedono molto ma in cambio si vedono molto bene i cattolici. È ovvio che in Italia i cattolici ci sono, non c’è niente da fare; ma che tu, nel mio stesso partito, mi venga a parlare di centralità e di equilibrio, di moderazione e di diplomazia, questo è insopportabile…» Il racconto dell’esperienza con il Partito d’Azione ci restituisce non tanto l’integrità morale e l’idealismo di un Meneghello “duro e puro”, quanto la sensazione che lo scrittore maladense avesse già fatto una doppia scelta: una non-politica, di stare fuori dagli schieramenti, ed una politica (e piuttosto coerente), di porsi al di fuori (al di sopra?) dei confini nazionali, in una dimensione europea. Per quanto Meneghello affermasse di essere «certamente un italiano», di non aver «alcun problema d’identità», a noi piace molto il suo sguardo “dispatriato”, o non più solo italiano, transnazionale, nel quale riconosciamo lo studioso di Reading che scelse di filtrare la “materia” (la sua esperienza italiana, altovicentina e non) con una precisa scelta linguistica, con una scrittura atipica che – non poteva essere altrimenti – non trova paragoni nella letteratura italiana.

«Vorrei vedere la gente fremere d’amore intellettuale di Dio, lavorare con piacere, fabbricare giocattoli appassionanti, sciare ardita sulle coste dei monti, nuotare a farfalla lungo le coste dei mari; sentirla cantare inni di elementare grazia e potenza, avendo per inno nazionale un Inno alla mortalità in cui si esprimesse la rassegnazione a questo sgradevole aspetto della vita, e la contentezza di potere produrre affetti e odi sereni, begli edifici, dolci macchine lisce come l’olio, istituti severi e soavi, e quell’onestà nel fare e non fare che (quando c’è) cancella la paura e perfino il rimpianto di non sopravvivere per sempre.»

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