«Sulla scena non basta credere e identificarsi, bisogna giocare.» |
(Jacques Lecoq) |
Quando due monumenti viventi del teatro italiano come Titino e Annalisa Carrara, ti invitano per una gita fuori porta in quel di Abano, non chiedi nulla e ti metti in macchina con loro, felice come un bambino e certo che qualcosa di magico accadrà. Ma la magia, vera, che il museo Sartori ti comunica, va ben oltre le aspettative. Quello che Amleto e Donato Sartori hanno fatto negli anni, è un lavoro prezioso di rivoluzione del teatro, di riscoperta della tradizione classica e di unione indissolubile con una generazione di attori straordinaria e di registi inarrivabili. Gente come Strehler, Fo e Soleri era di casa da queste parti. Attori decisivi per il novecento italiano come Cello Moretti o Giorgio Bongiovanni, sono stati ambasciatori dell’arte Sartori in giro per il mondo. Oggi vi riceve Paola, dolce e innamorata della vita presente e di quella passata. Una donna che ha vissuto in simbiosi col marito Donato fino alla fine e che ora porta avanti il lavoro e lo spirito che permea questa famiglia; lo fa con la figlia Sara e il compagno Walter Valeri, poeta, scrittore e drammaturgo, nonché assistente di Dario Fo e Franca Rame per più di 15 anni.
Se a questo punto vi state chiedendo il motivo di un articolo che esce dal perimetro vicentino, la risposta potreste anche darvela da soli: qui si è fatta la storia del teatro, e molta l’hanno fatta i Carrara e il cerchio si chiude. Andiamo avanti.
Amleto Sartori, classe 1915, iniziò prestissimo il suo lavoro. Già a metà degli anni ‘20 era affascinato dalla storia della maschera teatrale, una storia che si era interrotta da quasi due secoli. Nel sette e ottocento, infatti, via via iniziò a sparire dalle scene l’uso della maschera, che invece si perde nel tempo e nasce col teatro classico greco. Così Amleto (che con un tale nome non poteva non occuparsi di teatro) inizia un fervido periodo di studi sulla maschera della Commedia dell’Arte che lo conduce a una tecnica di modellazione di maschere in cuoio su stampo in legno divenuta poi celebre. Anche suo figlio Donato seguirà lo orme del padre intraprendendo lo stesso percorso artistico. «Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero», diceva la buonanima di Oscar Wilde in uno dei suoi aforismi più veri. La maschera è personaggio e persona, recita e confessione, significato e significante. Passare in rassegna le vetrine del museo Sartori in cui sono custodite solo una piccola parte delle opere di Amleto e Donato, è come immergersi in un viaggio dentro all’antropologia umana, e forse l’impatto più forte emotivamente è rappresentato dal fatto che quelle maschere non sembrano inermi, paiono piuttosto degli eroi a riposo, adagiati fieramente e meritevolmente su allori passati.
Affinché nasca una maschera occorrono quattro condizioni: 1- Un attore, 2- Un autore, 3- Un regista e 4- Uno sculture di maschere. Ecco perché i 4 “personaggi” devono per forza interagire tra loro. Anche a costo di grossi scontri. Come quella volta in cui Giorgio Strehler dovette separare una vera baruffa feroce tra il focoso Amleto e il grande Marcello Moretti, reo di aver manomesso una maschera del maestro per vederci meglio. La vista è il campo di azione di un attore quando indossa la maschera e non solo. Si diventa tutto una maschera una volta calata sul viso. Le linee, gli spazi, i movimenti, tutto è calibrato sul personaggio e sull’impatto che la maschera dà. Le luci disegnano le espressioni, i passi raccontano le emozioni intime. Esiste un vero alfabeto della maschera e quindi una grammatica del corpo.
E a questo punto, è doveroso lasciare la scena alla maschera delle maschere: lo Zanni bergamasco, o il personaggio diabolico farsesco della tradizione popolare francese, il servo per antonomasia… Arlecchino!
La sua origine è antichissima, addirittura pre-cristiana. La natura è malvagia e infernale. Tanto che per moltissimo tempo egli fu dotato di corna luciferine e quando poi divenne il servo che conosciamo gli rimase sul capo il segno là dove c’era il corno diabolico. Oggi conosciamo tutti la sua furbizia, il suo agire bambinesco, il suo far confusione ad ogni piè sospinto. Il Piccolo di Milano con “Arlecchino servitore di due padroni” diede la definitiva notorietà mondiale a questa maschera, e ancora oggi è la pièce che meglio rappresenta il teatro italiano nel mondo. Lo sa bene Titino Carrara che è stato Arlecchino innumerevoli volte e in ogni angolo del globo. E avrebbe dovuto saperlo bene anche il grande Giorgio Bongiovanni che però, tornando via nave da una turné in America, lasciò nella stiva la sua maschera (mai separarsi dalla maschera, dice una regola non scritta del teatro!!) e fatalità la nave si incagliò e una dopo l’altra, le casse della stiva finirono nell’oceano. Ma poteva morire così Arlecchino? Dopo un po’, la maschera goldoniana per eccellenza, tornò a galla in un isolotto e ora fa bella mostra di se nel museo Sartori.
Il 19 Dicembre su Rai5, se potete, guardate il documentario “Viaggio in Italia” di Jacques Lecoq, attore teatrale, mimo e pedagogo francese, che tantissimo ha fatto per la diffusione della maschera. Ci troverete molto di quanto narrato in questo breve pezzo ed una piccola storia di questa famiglia incredibile che sono stati e continuano ad essere i Sartori.