Alessio Mannino l’ultimo libro: contro “la perversione liberale”. Vicenza? “Morta”

Alessio Mannino è una penna vivace. Personaggio atipico nel mondo intellettuale cittadino. Da anni si è guadagnato l’appellativo di “bastian contrario” ma in realtà è una fama tutta vicentina, visto che Alessio non è interessato né alla corrente né alla controcorrente, è solo un pensatore libero e come tale trova pochi appigli in questa città spesso manichea e sempre troppo suscettibile. Quando ha diretto due noti quotidiani online è riuscito ad essere voce autorevole e sostanzialmente unica narrazione alternativa al “così si fa” tipico della liturgia berica. Ora, continua il suo lavoro di giornalista e scrittore, collabora con varie testate tra cui il Fatto Quotidiano e, cosa più importante, ha da poco dato alle stampe “La Disciplina del Caos. Come uscire dal labirinto del pensiero unico liberale” per i tipi de La Vela. Al quarto libro (contando anche il primo che è una raccolta di articoli), si delinea un percorso intellettuale sempre più personale e mai scontato. Lo abbiamo incontrato per parlarne.

Che il liberismo sfrenato sia la giustificazione alla deriva capitalistica è un fatto su cui sempre più persone concordano. La grande finanza muove il mondo, il Dio denaro ha ridotto i governi a delle governance e poco più. Quello che pare essere scomparso è un ideale forte e visionario di nuovo patto sociale. Credi davvero sia solo “colpa” del sistema economico o ci vedi anche una propensione naturale dell’uomo?

Posto che il mercato inteso come sistema mirato a guadagnare dagli scambi una plusvalenza rappresenta un frammento brevissimo nella storia dell’homo sapiens, per stare all’oggi il punto da cui partire per cercare di capirci qualcosa è, secondo me, questo: nella forma che ha assunto l’economia, cioè il capitalismo ormai più finanziario che industriale, il denaro è diventato il valore dominante ben più che in passato, quando sussistevano credenze religiose, morali e politiche, per quanto ipocrite fossero, che ne subordivano l’influenza a scopi ideali, come la maggior gloria di Dio o il bene della collettività, o perfino estetiche, come il ricco mercante che finanziava la grande arte. Oggi non c’è alcuna remora a considerare la ricchezza pura e semplice come status ottimale, fine ultimo dell’esistenza. Tanto che i due uomini più ricchi del mondo, Jeff Bezos di Amazon e Elon Musk di Tesla, devono inventarsi la colonizzazione della galassia per giustificare una finalità che riesca a dare loro un senso ulteriore al fatto di accumulare miliardi su miliardi praticamente in loop. Una condizione di super-ricchezza, la loro, talmente diseguale rispetto all’uomo comune, da non avere precedenti nella Storia, neanche ai tempi dei faraoni. Significa che si è persa la proporzione di ciò che ci accomuna come esseri umani, vale a dire si è stravolta, nei fatti, la comune natura umana a cui fai riferimento.  Certo che anche duemila anni fa si sognava di diventare ricchi, ma l’onore più ambito era di essere ricordati dopo la morte. Uno speculatore, nell’antica Grecia, era disprezzato se messo a confronto di un generale vittorioso o di un vincitore alle Olimpiadi, e nel Medioevo, il tanto diffamato Medioevo, era molto più importante e potente l’imperatore, o il papa, del proto-capitalista tessile. Perfino Adam Smith, il teorico sommo del libero mercato, finalizzava comunque l’egoismo del venditore al bene comune che, misteriosamente, avrebbe dovuto per lui prodursi dalla libera iniziativa individuale. Oggi al bene comune non crede più nessuno, non sul serio almeno (tranne, bisogna dire, il Papa, anche se più a furia di encicliche che con i fatti, e non potrebbe essere diversamente). Ci sarebbe anche da specificare, ma il discorso sarebbe troppo ampio, che l’inclinazione fondamentale nell’uomo, quella primaria, è alla socialità, non alla competizione. Ce lo dicono la biologia e la psicologia. E’ una mistificazione moderna pensare che l’uomo sia un rapace tutto teso ad arraffare più che può. Una mistificazione che però è stata predicata e inculcata e perciò, inevitabilmente, ha prodotto delle distorsioni (per altro utilissime alla logica economica, che ha finito col prevalere su tutte le altre).

Il comunismo è stata l’ultima grande utopia. Intravedi una strada alternativa ora a quello che critichi come “pensiero unico liberale”? Esistono già delle prove in atto di terze vie?

Sì, e in assenza di termini nuovi potremmo recuperare, per definire l’alternativa, il vecchio caro socialismo, che all’origine non era affatto, come pretendeva Marx, un preludio al suo socialismo “scientifico”. Era un socialismo non comunista ma comunitario. Sembra un gioco terminologico, ma non lo è. La differenza fra comunismo e comunitarismo è che nel primo, detta alla grossa, si astrae dai popoli per come sono e si impone una teoria considerata dogmaticamente come “scienza esatta”, mentre nel secondo si parte dall’analisi della società per com’è, con i suoi caratteri storici e culturali peculiari, e si cerca di far esprimere al meglio la costitutiva varietà di interessi e punti di vista dando la priorità a chi ha meno mezzi materiali (cioè economici) perchè possano avere una chance di esistere e svilupparsi. Traduzione: una democrazia in cui l’ultima parola spetti sempre al popolo, quindi un mix di democrazia rappresentativa e diretta, nella quale i beni decisivi perchè ciascun cittadino abbia una possibilità siano e restino sociali, cioè gestiti da uno Stato che metta i paletti giusti al mercato (cioè non regolamenti tutto, ma si tenga in mano gli asset strategici, oggi svenduti mentre, contemporaneamente, si tengono immobili e inattive grandi proprietà pubbliche o si regalano pensioni d’oro a categorie protette, quando la media delle pensioni è da fame o quasi). Lasciamo stare la formula “terza via” che rimanda o ai fascismi o alle fanfaluche alla Tony Blair. Sul versante istituzionale un modello positivo è la Svizzera, mentre su quella della redistribuzione alcuni Paesi dell’America Latina sarebbero da studiare senza pregiudizi (e nella lista, benchè a latere, ci metto pure la Cina, con tutte le precauzioni). Ma attenzione: non sono esportabili, copiabili in carta carbone. Possono fornire elementi utili da adattare ai diversi contesti. L’importante è il principio di fondo: prima viene lo svantaggiato, e poi il ricco. Questo, ridotto all’essenziale, è socialismo.

Parli di un’umanità sola, di legami tra gli individui ormai sfilacciati se non compromessi. Che ruolo hanno i media in tutto questo? Dal giornalismo fino ai media online e ai social.

Un’umanità sola? Nel senso che siamo ormai globalizzati, sì. Personalmente però tifo diversità, specialmente di culture (il che non significa restare in adorazione del passato, ma semplicemente preferire le differenze alle omologazioni). I media sono lo strumento del consenso di una cultura di massa improntata al narcisismo, e i social ne rappresentano il trionfo. Tutta la tendenza allo storytelling, a vedere il lato sentimentale dei fatti, a comprimere i conflitti con la solfa dell’hate speech e della censura per ciò che disturba, e ormai pare che disturbi tutto, fanno parte della dinamica mediatica che tratta il cittadino come un poppante consumatore ansioso di novità, distraendolo così non solo dai responsabili delle sue disgrazie, ma soprattutto distraendolo da se stesso, dai bisogni umani di avere tempo per sè, per gli affetti, per le proprie passioni, che è tutta roba che alla fine, se ci si pensa, non ha un valore strettamente economico. L’ozio, che serve a pensare e coltivare i sentimenti, così come le cure per i familiari o per gli amici, sono disvalori, per la società centrata sul cosiddetto mercato. I media sono i guardiani e i propagandisti più influenti dell’alienazione, visto che editoria e cultura alta servono al massimo a dare una patina di prestigio: la gente (direi comprensibilmente, anche se devo aggiungere: purtroppo) legge pochissimo. Passare ore sul telefonino e ingozzarsi di televisione o intrattenimento su internet è più facile. E funzionale al gioco del padrone.

Ok, il liberismo è il male o uno dei. Ma il pensiero liberale? Ti cito degli esempi. Benedetto Croce? I fratelli Rosselli? Don Sturzo? Solo per rimanere dentro ad un periodo storico fondamentale. E la destra storica Giolittiana? Come ti poni di fronte a questa eredità?

Mettendomi in posizione reverenziale e di rispetto, per quelle teste finissime e quegli animi spesso coraggiosi. Ma contestandone l’assunto fondamentale, e cioè che l’individuo sia il perno e il centro di tutto. Il peccato originale del liberalismo, anche di sinistra o cattolico, è la concezione per cui il soggetto primo e ultimo della società sia il singolo. E’ una perversione ideologica che affonda nel pensiero di Hobbes e Locke, e che affiora persino in un hegeliano come Croce, quando dice che la Storia è storia della libertà, nel suo caso libertà di pensiero, e il pensiero è sempre, in definitiva, individuale (sia pur ovviamente prodotto dai fattori del contesto storico). Nel libro, che è anche un itinerario di controstoria della filosofia, ponendo Nietzsche come termine ultimo propongo provocatoriamente di tornare alla casella di partenza, non solo a ciò che c’era prima di Socrate e Platone, ma, andando sul pratico visto che era un pensatore molto pratico, ad Aristotele, secondo cui è la comunità, la polis, a costituire l’asse fondamentale (con la differenza decisiva, rispetto a Platone e alla successiva “rivoluzione cristiana”, che per Aristotele non c’è alcuna immortalità, perciò è bene vivere intensamente, cioè rettamente, questa vita, perchè non ce n’è un’altra). Naturalmente non si può tornare indietro con la bacchetta magica, ma come ispirazione, penso sia legittimo riprenderne la saggezza senza tempo. Di passata, dico anche che a mio modesto avviso i liberali migliori, più consapevoli dei limiti del liberalismo almeno teorico, sono stati Gobetti e Bobbio. I peggiori sono di scuola americana, peggiori ma anche più consequenziali e quindi coerenti: i libertarians, gli anarco-capitalisti come Nozick, Rothbard e Hoppe. Verso di loro avrei molto meno rispetto, ma bisogna ammettere che un liberale, se lo è fino in fondo, diventa quella roba lì.

Il modello liberale sembrava essere universale. Il concetto di Fukuyama di “fine della storia” pareva averci messo il sigillo. Quando è entrato in crisi?

Non mi pare proprio che sia in crisi. Diciamo meglio: ci sono, per fortuna, resistenze forti al suo dominio. Forti ma inadeguate e insufficienti. Ma a livello di chi comanda, è esattamente il pensiero unico dominante. Pensa a Draghi, pensa ai circoli di Davos e simili, senza contare istituti sovranazionali come l’Fmi e il Wto. L’Unione Europea poggia le sue basi sull’ordoliberalismo tedesco, che è una variante appena più sociale, ma sempre liberalismo è (solo che a misura di Germania). La Storia, grazie al cielo, non finisce mai. Altrimenti vorrebbe dire che è finita la Vita su questo pianeta.

Esistono molti “liberalismi” e non un unico “liberalismo”. Sei d’accordo?

Ovviamente.

So che sei un Nietzschiano, non so fino in fondo quanto radicale. Ma non credi che si stia vivendo un periodo buio anche perché si è realizzata la profezia di Nietzsche? Intendo che si è ucciso Dio e mitizzato l’uomo e che circoscrivere tutto all’uomo sia un disastro anti sociale di cui non vedo rimedi prossimi futuri.

Nietzsche, molto citato ma poco compreso (anche perché lui stesso voleva essere compreso da pochi), diede quell’annuncio con sgomento. Ma essendo impregnato di quello spirito tragico che aveva appreso dallo studio della civiltà greca, lo sgomento lo volgeva anche in gioia. La gioia per un’era in cui l’uomo avrebbe potuto finalmente non procedere più con la balia di un Dio moraleggiante, ma con le sue sole forze. Il che avrebbe portato lutti e catastrofi immani, come puntualmente poi avvenuto. Tuttavia, la tragedia è il prezzo che la libertà paga a se stessa. Il fatto è che per vivere, occorre essere per così dire armati di valori, e di valori forti. Il suo errore, mi permetto sommessamente di dire, è di aver immaginato un’aristocrazia di creatori di valori che mentre li creavano lo facevano come gli artisti, che sanno benissimo che la propria opera è reale come fatto visibile, ma è una finzione se rapportata a un senso trascendente delle cose che non è percepibile, perché non c’è. Non solo, ma ne prefigurava i contorni avendo in mente una casta di signori, in un vero e proprio razzismo spirituale e sociale. Nietzsche è definitivo come sigillo dell’autodistruzione della metafisica, ma andando oltre lui, a mio parere, non può che esserci un’etica ben fondata sulle caratteristiche di fondo dell’uomo, istinto comunitario in primis (una volta riscoperto e disvelato dopo secoli di obnubilamento liberale, appunto). Per quanto mi riguarda, Dio può anche restare fuori dalla porta. Ma se qualcuno ne ha bisogno in quanto, per così dire, insicuro, che sia. Purché almeno, se è cristiano, si legga – piccolo consiglio di lettura – “Sovversione del Cristianesimo” di Jacques Ellull, cristianissimo ma proprio per questo criticissimo di ciò che sono state le Chiese, e di come hanno stravolto il messaggio di Gesù.

Veniamo al Mannino uomo e professionista. Com’è questo tuo periodo di cattività? E come trovi Vicenza in questa sua fase?

Umanamente, mi ha permesso di respirare, lavoravo decisamente troppo (sgobbare è un piacere solo per i sadomasochisti, e credo che nell’anima veneta una certa venatura di questo tipo ci sia). Lavorativamente parlando, ha rappresentato una svolta, a causa della chiusura del giornale online almeno per come lo dirigevo io, con tutti i miei limiti ma anche con qualche pregio. Come tutte le svolte, sempre benefica. Anche se magari dall’esito incerto. Nonchè caduta al momento giusto, nel mezzo del cammin, a 40 anni precisi. Quanto a Vicenza, la pandemia è stata l’alibi perfetto per mascherare lo stato di catatonia profonda in cui versa da tempo. Culturalmente, socialmente, Vicenza è una morta gora. Le mostre, anche interessanti come quella attuale pensata da Beltramini del Cisa, non possono bastare per ravvivarla. Non è solo un problema vicentino, chiaramente, ma avverto in modo molto sofferto la mancanza di personalità con un minimo di estro, l’aria pesante da routine, la noia devastante. Sì insomma, Vicenza mette una depressione che riproduce, estremizzata, quella del Veneto zaiano, dove tutto sembra, sottolineo sembra, andare così bene e alla grande che a uno viene voglia di spararsi. In una parola, mi sento isolato qui. Capisco molto bene come quasi tutti coloro che avessero una vocazione appena superiore al vivacchiare ritagliandosi la micro-nicchia di comfort se la siano filata, in passato. Dovrei farlo anch’io, probabilmente. Ma, come diceva Orwell in un romanzo poco conosciuto ma stupendo, “Fiorirà l’aspidistra”, tutto è denaro, e per fare qualsiasi cosa serve denaro: il denaro di un lavoro decentemente pagato, il denaro per una casa, il denaro per divertirsi, il denaro per spostarsi, il denaro per viaggiare. Il vero Greenpass non è di oggi: si chiama denaro.

Con Alessio Mannino Vicult organizza la presentazione del suo libro questo Venerdì 17 Dicembre presso la galleria d’arte “& Art Gallery” in contrà Frasche Del Gambero 17, Vicenza, alle ore 19.

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