L’ombra al Campanile. Da Ugo e Andrea la Vicenza più vera.

Il Cardinal Tonini disse un giorno che “le osterie sono un bene universale”. Ora, non si sa se pure il vescovo di Vicenza lo pensi, ma di certo la Chiesa nei secoli è stata vicina alle osterie, non fosse altro per il fatto che dopo messa ci si va a bere un bicchiere, proseguendo il rito in una sorta di chiesa pagana. Ad immaginarsi Ugo parroco si fa fatica, ma che al Campanile si vada sovente a confessarsi è poco ma sicuro. Tutti a Vicenza conoscono il Campanile e per quei pochi che non lo conoscono basti dire che è quel bar dietro al Duomo, a fianco delle poste. Se passate poi nelle vicinanze verso le 17.55 vi può capitare facilmente di incontrare qualcuno che guarda l’ora, attendendo i fatidici sei rintocchi che annunceranno l’imminente apertura.

Nei lunedì, col turno di chiusura, la via assume invece contorni malinconici. Se mai un giorno chiudesse davvero, molti cambierebbero città. Il Campanile è una casa, un luogo sicuro, un riparo dalla modernità aggressiva che sta uccidendo le osterie, un’oasi interclassista, un libero, spontaneo approdo di beoni e lavoratori, di persone serie e altre meno, di tifosi, di affamati, di assetati, di vicentini più o meno nostalgici di una Vicenza che non c’è più ma che si ricrea in questa enclave di identità immutata

UN PO’ DI STORIA

La bottega esiste da tre secoli ed è sempre stata una vineria, fin dal primo giorno. Si dava da bere agli avventori, quello e nient’altro. Era chiaramente una città molto diversa, non solo per quanto riguarda i locali pubblici ma anche urbanisticamente. Il palazzo delle poste viene costruito tra il 1930 e il 1935 e prima l’adiacente contrà Fontana sostanzialmente non esisteva. La piazza era circoscritta da abitazioni che arrivavano oltre l’attuale confine con la contrà, lasciando spazio giusto per il passaggio di un carretto col cavallo o di un asino. Il locale allora si chiamava “osteria alla buca” proprio perché letteralmente imbucato dentro alla vietta stretta.

l’osteria alla buca a inizi 900

Diventa “Al campanile” nella seconda metà degli anni ‘30, gestita da Ezio Cibottto, che poi ci rimane per 40 anni diventando famosissimo in città. Non è un caso se prima si citava la chiesa, visto che le mura sono di proprietà della curia e che le campane, quando si fanno sentire, ti scuotono in maniera veemente e per un po’ devi sospendere le chiacchiere tanto forte è il volume. Negli anni ‘70, dopo l’addio di Cibotto, l’osteria rimane aperta a singhiozzo e così interviene il clero, che mica fa andare in malora un luogo che gli procura denaro. Quindi a tenere aperto l’ambiente viene messo un amico della diocesi. La casa offriva un tipo di bianco, un tipo di rosso e bicchieri lavati a mano, fine. Ma nel 1979 arriva la svolta. Livio Berardinelli realizza l’enoteca esattamente così come la si trova adesso. All’epoca praticamente non esistevano quasi le enoteche e Livio ci inserì tutti i più grandi vini delle regioni d’Italia e dei migliori produttori. Rimodernò il locale aprendo anche la sala al piano di sotto. Portò una clientela diversa e disposta a spendere i prezzi improvvisamente alti. Morale: durò dieci mesi mangiandosi tutto. E così, nel 1983, arriva la famiglia Sommacampagna: da subito Ugo e Ampelio. Ampelio è personaggio ormai storico di Vicenza. Prima di aprire il Campanile lavorava nei grandi alberghi come l’Excelsior a Venezia e il Miramonti a Cortina, sia come maitre che come barman. Ma il vecchio Ampelio è famoso anche per essere stato immortalato da Ettore Scola nel “Commissario Pepe”, splendido film del 1969 che raccontava una Vicenza perbenista e ipocrita che nascondeva una natura ben più torbida e viziata. Una Vicenza pettegola, “basabanchi” e permalosa, vilmente rancorosa. Ed è cambiata poco o nulla.

Ampelio Sommacampagna e Ugo Tognazzi sul set de “Il Commissario Pepe”

Ugo invece era al primo lavoro, spinto dal padre a mettersi dietro al bancone al suo ritorno dal servizio militare. Non era propriamente la sua prima scelta visto che nella sua mente c’era ancora il pallino di voler fare l’orafo e si era anche messo a praticare per imparare il mestiere. Ma vuoi la crisi, vuoi il richiamo paterno, vuoi l’attrazione della vita mondana da oste, alla fine il campanile ha avuto la meglio. Padre e figlio mantengono la strada intrapresa dal Berardinelli ma abbassano il tiro. Aggiungono il vino alla spina, ad esempio, facendo così tornare il “popolo” che era stato sostanzialmente fatto fuori dalla gestione precedente. Immaginate la scena. Gestione Berardinelli, entra un vecio e dice “dame tre rossi” e gli arriva la risposta: “12 mila lire”. Il vecchio allibito sbotta: “ eh ma non sto mia qua na settimana”. Ugo e Ampelio fanno pagare 300 lire il goto alla spina, l’osteria rinasce e da allora non si ferma più.

Di fatto il campanile era già così com’è ora. Mai fatto caffè, qualche affettato e qualche crostino col baccalà e poi vino, tanto vino. Erano gli anni in cui Vicenza era popolata da molte vere macchiette che vivevano l’osteria. C’erano lo scultore Pinton, il mitico Renzo Twist che molti chiamavano l’uomo della notte visto che se c’era anche un solo bistrot aperto lui arrivava non si sa come e sempre e costantemente a macca, senza cavare un scheo dalle tasche. Poi c’era Giovannin Girotto, il matto della città, e Pino Cattelan. La sera si chiudeva alle 21 e poi magari si stava a giocare a carte. Uscivi e da Porta Castello, se camminavi fino a Ponte degli Angeli, trovavi tutto chiuso. Anche le luci erano poche. Di aperto c’era Alcide, la Bella Vicenza in contrà Pigafetta, il Trombon, il Big Ben, un paio di pizzerie, il bar Firenze e il Garibaldi, ma quasi tutti chiudevano la sera ed era tutto molto buio. La città è cambiata tantissimo, soprattutto negli ultimi 25 anni, ma quel che non è mai cambiato è il campanile, vera e propria macchina del tempo cittadina. Non si gioca più a carte, ecco, quello è cambiato. Da almeno 18 anni, da quando è entrato in squadra Andrea, figlio di Ugo, oggi 36enne, che ha preso il posto di nonno Ampelio.

L’ombra al campanile nel 2021 è pressappoco la stessa di 40 anni fa. Ci sono meno personaggi pittoreschi di un tempo, i costumi e i modi sono cambiati e non sempre in meglio. La gente ha un po’ perso quella goliardica vivacità popolare, quella semplicità di bersi un bicchiere in compagnia, quell’umiltà da strapaese. Oggi molti si atteggiano o pretendono altro, e allora un’osteria come questa diventa una sorta di avamposto, un luogo che ti spiega che la strada giusta è quella della tradizione, del necessario e della genuinità. Ugo è il riferimento supremo. Quando canta in un inglese totalmente inventato le canzoni che passa la radio è puro spettacolo. O quando fa il playboy de noialtri e improvvisa danze improbabili con le moltissime avventrici donne. Andrea è più riservato, sembrerebbe scontroso ma non lo è affatto, anzi ha una spiccata capacità di capire quel che succede in osteria e di comportarsi di conseguenza. Lunga, lunghissima vita al campanile. Al toast momola che nessuno mai saprà com’è fatto ma che è il miglior toast del mondo. A quelli che ancora chiedono il caffè e si beccano le risate da tutti i presenti. Ai foresti che vengono i sabati e le domeniche a rubare il posto agli assidui abitudinari della settimana. Al vecchio che, durante i mesi di coprifuoco, arrivava sempre alle 17.55 spaccate e allora sapevi che tra cinque minuti chiudeva la baracca. Alla clientela senza politica, senza classi sociali, senza età, che si mischia sempre facendo nascere discussioni e amicizie. Alla piccola Eva, figlia di Andrea, che magari un giorno, chissà, porterà avanti la tradizione di famiglia. Ad Alberto, dannato interista, altro figlio di Ugo che spesso viene a dare una mano. A tutti i perditempo, fegati andati, innamorati dell’ozio, panchinari della fatica. Se, come diceva Mario Soldati, il vino è la poesia della terra, allora chi lo beve al campanile è la poesia di Vicenza.

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