Igor Stravinsky e il Teatro Olimpico sono perfetti assieme, non ci avevo mai pensato prima. Il grande compositore russo poi americano, è stato tutto nella sua vita. Dagli inizi rivoluzionari e scandalosi approdati all’apice con la “Sagra della Primavera” fino alla svolta neoclassica vista da molti come reazionaria e un finale di carriera in cui si avvicinò alle avanguardie del novecento come la dodecafonia e la musica atonale. Tanto, forse troppo, dacché per molti Stravinsky è più famoso come persona che per le sue musiche. Un uomo mondano, intellettuale, frequentatore della borghesia colta, un personaggio totemico e iconoclasta. E il Teatro Olimpico gli calza perfettamente in quanto tempio in sé, a prescindere da ciò che va in scena, a prescindere dai secoli che passano, un tempio che nonostante il suo monumentalismo si adatta facilmente a racconti popolari, folk, com’è “Histoire du Soldat”. Un recital, un balletto, un’orchestra da camera moderna, tutto è misurato e non stona per nulla dentro la cornice che solo per cocciuto idealismo dovrebbe ospitare esclusivamente classici del teatro greco. Non erano forse anch’essi dei racconti popolari? E questa piccola opera è specificatamente nata per il grande pubblico, soprattutto quello meno colto dei villaggi. Siamo verso la fine della prima guerra mondiale ed è passato appena un anno dalla rivoluzione russa. La vita di Stravinsky cambia radicalmente e si trova all’improvviso in crisi finanziaria e ormai distaccato totalmente dalla madre Russia. Altri compositori come Shostakovich, rimasero in patria a lottare dentro e fuori la dittatura, ma Igor era troppo spirito libero e cosmopolita per accettare il comunismo. La storia del soldato nasce in questo clima, con pochissimi fondi a disposizione e la necessità di fare il meglio col poco che aveva. Sceglie una fiaba popolare russa e un modo minimale, mobile ed indipendente di metterla in scena. Tre danzatori, un narratore ed un’orchestra ridotta al minimo per facilitare anche il trasporto da un paese all’altro. Già perché l’Histoire veniva presentata su piccoli palchi in giro quasi come spettacolo da strada, come favola popolare. E se la trama è facile per tutti, davvero per tutti; così non è la musica, che spazia tra rimandi ai tre grandi balletti stravinskyani fino alla fascinazione nemmeno tanto malcelata per il jazz, che proprio in quegli anni esplode con la sua debordante carica di libertà. Ci sono innumerevoli versioni di questa piccola opera, di durata varia (di solito tra la mezz’ora come minimo e l’ora come massimo) e anche con diverse scelte recitative. A volte non è solo il narratore a recitare ma anche soldato e diavolo parlano, altre volte c’è solo la traccia dell’attore che racconta al pubblico quello che i “burattini” viventi mettono in scena danzando e mimando la vicenda. Vi è ad esempio una versione splendida in cui il narratore è la bellissima Carole Bouquet e la voce maschile dei due protagonisti è invece di Gerard Depardieu. Marinelli, regista di questo Histoire andato in scena all’Olimpico, sceglie invece sia solo il narratore a parlare e ne fa centro assoluto della rappresentazione.
La prova di Drusilla Foer è superba, perfetta per tensione, ritmica, presenza scenica. Ma questa Histoire, chiariamolo, non è la solita, non è quella a cui siamo abituati, questa è indubbiamente e inscindibilmente l’Histoire du Soldat di Giancarlo Marinelli. Da ben prima che si spengano le luci, sul palco si trova la stanza del Marinelli bambino che vediamo impersonificato da un dolcissimo monello che danza e salta e gioca e disegna e vive la sua infanzia noncurante di un teatro che va intanto riempiendosi. Non tutti se ne accorgono, ma questa scelta registica che viene prima dell’inizio è già fondamentalmente l’intera chiave per capire questa Histoire. Durante l’opera tutto si spiega meglio ma è già lì davanti a noi, nella figura del bambino che sogna. E i sogni diventano fiaba quando il soldato e il narratore e gli orchestrali entrano. Una fiaba nella fiaba, uno sforzo semplice di onirica ed ipnagogica surrealtà. Ci sono più livelli. Quello musicale, quello testuale, quello coreografico, ma tutti e tre sono poi passati al setaccio del livello sublimante che è quello della fantasia del bambino che riceve e dona, che si ammalia e al contempo dirige.
La regia decisamente autoriale ed autobiografica di Marinelli ci porta a riflettere sulla magia dell’amore per la musica e delle storie raccontate e lo fa senza strafare, limitandosi quasi alla dimensione fanciullesca come fosse un esperanto senza età. La bravissima e splendida Beatrice Venezi è anche lei vestita da fiaba e le immagini che scorrono sopra alla scene classiche dell’Olimpico non hanno paura di sconvolgere la storia del luogo mostrando disegni di bambino, giocattoli e fantasticherie che poi sono il sale della libertà, di quel gioco da bimbi che è recitare. Per finire, e non è secondario, c’è la morale della storia, fatta di concessioni ai desideri e di redenzione, di amore e di libertà, che agli occhi di un bambino diventano ancora di più insegnamento di salvezza in un mondo che più di cento anno dopo, salvo ancora non è.